LA FIGLIA E’ STATA CONDANNATA GIà PIU’ VOLTE, SE NON ERRO, ED ORA DELINQUENDO ALL’ESTERO LI’ DOVRA’ ESSERE GIUDICATA: I DELINQUENTI NON DOVREBBERO VOTARE MAI PIU’ !!
(…) – In Italia abbiamo un problema. Serio. Grosso come una casa. Ovvero il fatto che a tre settimane dal “caso Scurati”, che poi un caso non è mai stato, La Stampa decida di aprire la sua edizione con lo scrittore che denuncia una presunta “deriva illiberale” in Italia. Scurati non sa, o finge di non sapere, che la sua storia non sta in piedi. Per tanti motivi, ma ci permettiamo di segnalarne alcune. Primo: il suo monologo sul 25 aprile non è stato “cancellato” con un metodo antidemocratico, come dimostrano i documenti. La Rai lo aveva previsto in scaletta ed era stato autorizzato l’acquisto dei biglietti del treno e della stanza di hotel. Nessun dirigente che intende censurare uno scrittore si preoccuperebbe di affidare una stanza in un bell’albergo. No? Secondo: Scurati porta come prova di questa “deriva illiberale” gli attacchi personali ricevuti, in particolare il fatto che i ragazzi di Atreju abbiano realizzato alcune vignette per canzonarlo un po’. Solita storia: se l’ironia la fa la sinistra, si chiama satira; se la fa la destra, diventa violenza. Terzo: se vi fosse una deriva illiberale, il monologo presunto cancellato non sarebbe stato condiviso sui social dal premier Meloni, non sarebbe stato letto in diretta da Serena Bortone, rilanciato su tutti i media e lui non sarebbe da quasi un mese invitato a destra e a manca.
Il giornalismo è negli occhi di chi guarda; è la ricerca «non della verità ma della miglior versione della verità possibile», insegnava il premio Pulitzer Bob Woodward. Bisognerebbe che i colleghi di Repubblica tenessero conto del maestro liberal delle inchieste, prima montare come maionese impazzita il caso “Al Jazeera analizza le proteste dei giornalisti Rai per TeleMeloni”, in un articolo pubblicato sull’edizione di sabato del quotidiano di Molinari; pezzo naturalmente rimbalzato, via social, tra gli indomiti crociati dell’orchitico “Caso Scurati”.
Oramai, ogni volta che viene evocato il “monologo antifascista” commissionato allo scrittore e non andato in onda il 25 aprile a Che sarà di Serena Bortone, ecco, da sinistra, lo scatto pavloviano, la crisi di nervi accompagnata da scarmigliate accuse di nazifascismo. Comprensibile, per carità. Ognuno ha gl’impeti freudiani che si merita. Epperò, tralasciando le trite, estenuate versioni sullo Scurati oscurato, qui il vero problema è un altro. Il problema è che qui Repubblica cita il podcast di Tariq Nafi, collega dell’emittente del Qatar. Il quale, da Doha, riferisce che, dopo Scurati, «i giornalisti Rai hanno organizzato uno sciopero per quello che il loro sindacato ha definito un controllo soffocante da parte dell’amministrazione di Giorgia Meloni e il tentativo di trasformare la rete in “un megafono del Governo”». E che, soprattutto, «è ordinario che in Italia i governi nominino persone lealiste le posizioni di vertice in Rai», sottolinea il giornalista di Al Jazeera, come un Di Trapani qualsiasi, «ma da quando è entrata in carica nel 2022 l’interferenza percepita di Meloni nell’emittente ha indotto alcuni presentatori e dirigenti di alto livello ad andarsene». Non è tutto.
La stessa emittente qatarina, pochi giorni prima, aveva informato che «in quanto emittente pubblica i cui vertici sono scelti dai politici, l’indipendenza della Rai – che ha una quota di ascolto in prima serata pari a circa il 39% – è sempre stata oggetto di dibattito. L’arrivo al potere di Meloni, che ha formato una coalizione con il partito di estrema destra della Lega di Matteo Salvini e Forza Italia di Silvio Berlusconi, ha raddoppiato le preoccupazioni»; e tra le preoccupazioni c’era, ça va sans dire, il calo della nostra libertà di stampa al 41° posto nel World Press Freedom Index (nel 2022 eravamo al 58° posto, ma fa nulla, ndr…). Ora, diamo per scontata la livorosa infondatezza dei testi e l’ammirevole costruzione di una realtà parallela, ché richiederebbero un pezzo a parte.
Resta il vero problema: l’esaltazione, appunto, e l’ostensione, da parte di Repubblica, del pensiero di Al Jazeera a modello assoluto di verità e difesa dei diritti civili. Ragazzi, Al Jazeera. Al Jazeera che denuncia l’autocrazia in Italia. Suvvia, Al Jazeera. Cioè la tv che dal 1996, fondata dall’emiro del Qatar Hamad bin Khalifa al-Thani e diretta dal di lui cugino Hamad bin Thamer Al Thani, viene ripetutamente «accusata di fomentare il radicalismo islamico, Al Jazeera ha più volte trasmesso i messaggi audiovisivi dei leader dell’organizzazione terroristica al-Qaida e di movimenti ad essa collegati», scrive l’enciclopedia Treccani.
Il presidente della Liguria, Giovanni Toti, si dimette oppure no? Pagare moneta, vedere cammello. Lui non è assolutamente intenzionato a lasciare. Nella sua casa delle vacanze ad Ameglia, un paradiso a un passo da Lerici, estremo Levante, dove è confinato agli arresti domiciliari da martedì scorso, il governatore studia le carte, con il solo conforto della moglie, la giornalista Siria Magri, al suo fianco.
Viene descritto lucido e combattivo, molto amareggiato però. Certo della sua innocenza, vive l’inchiesta come un processo al suo modo di far politica, alla sua visione, più che alla sua persona. Ha dedicato alla Liguria gli ultimi nove anni della sua vita e l’ha oggettivamente trasformata, coniugando un rilancio turistico che ha portato questa terra a sedici milioni di presenze l’anno a un piano di sviluppo che prevede allargamento del porto fino a raddoppiarne i volumi di traffico, diga, tre ospedali, tunnel subportuale da sei corsie che liberi Genova dal traffico, facendolo scorrere sotto quattro chilometri di area verde in pieno centro, quadruplicamento della ferrovia fino a Milano e molto altro.
Ora gli rimproverano di aver pensato in grande e aver agito come un doge. L’opposizione è già in campagna elettorale, tutti insieme con il grigio Andrea Orlando, eterno vice del Pd messo in panchina da Elly Schlein nonché ex ministro della Giustizia rilanciato da questa inchiesta che ha decapitato la Regione. Lo slogan è che bisogna cambiare il sistema, che è un po’ come dire stravolgere l’Inter dopo quest’anno di record e successi, un programma piuttosto illogico, come del resto la nostra politica, specie quando si mischia alla giustizia.
Pagare moneta, vedere cammello, si diceva. «Toti sta pensando alle dimissioni, ma è una decisione politica che spetta a lui e che però non può prendere da solo bensì dopo una verifica con le persone e le forze politiche che lavorano con lui» spiega ai cronisti l’avvocato Stefano Savi, annunciando che presenterà istanza di revoca degli arresti domiciliari e, in caso di rifiuto, farà ricorso al Tribunale del Riesame. È una semplice constatazione: per dimettersi è necessario un confronto e, per averlo, bisogna essere liberi; il che non significa essere per forza prossimi dimissionari, perché il governatore è un gran combattente e non si fa intimidire facilmente. Resisterà fino all’ultimo istante in cui sarà possibile, anche perché la politica è la sua sola fonte di reddito, lui con il governo della Regione non ha messo via un soldo e il processo, comunque vada, è una sciagura economica oltre che politica.
E poi il centrodestra gli chiede di non mollare, l’arresto ha sorpreso tutti nella sua inutilità, visto che sarebbe bastato un avviso di garanzia, e la maggioranza deve prendere tempo per studiare un piano alternativo. In caso la situazione peggiori, ci vuole un candidato in grado di convincere, di allargare la maggioranza oltre il perimetro dei partiti nazionali, capace di intercettare il voto civico, quello che Toti aveva portato in dote; perché da soli, non si vince. La sinistra invece è prontissima, quasi sapesse, o quantomeno preavvertisse. Questa inchiesta è un tonificante per i dem, che avevano appena perso 31 esponenti trasmigrati verso Azione, che fino a ieri strizzava l’occhio al governatore e oggi lo ripudia.
Una cosa pare comunque certa: la libertà non arriverà prima del voto per le Europee di inizio giugno. Se il giudice revocasse gli arresti nei prossimi giorni, smentirebbe la tesi per cui li ha disposti, ossia il pericolo della reiterazione del reato di corruzione elettorale. Allo stesso modo però, passate le consultazioni, viene meno di per sé la motivazione del fermo. La grande incognita è rappresentata invece dal contenuto delle novemila pagine di inchiesta non ancora rese pubbliche. Toti ieri davanti ai giudici si è avvalso della facoltà di non rispondere anche perché, ignorandone il contenuto, non avrebbe potuto difendersi efficacemente. L’appuntamento è rimandato alla prossima settimana, o a quella dopo ancora, quando la difesa si sarà preparata e potrà controreplicare efficacemente. Al momento, la sola accusa solida è di usare frasi infelici al telefono con gli armatori, però non è un reato e non serve essere un maestro del diritto per comprendere che, chiunque, al porto parla diversamente che a Buckingham Palace.